I tabaccai italiani sono in rivolta contro la crisi economica e contro la pressione fiscale dello Stato che ne limita la possibilità di uscire dal pantano. Così dallo scorso 3 marzo, e per tutti i lunedì a venire, tutti i tabacchi del Paese hanno indetto una serie di scioperi che non avranno fine finché la situazione non cambierà. La protesta consiste nel non vendere sigarette la mattina del primo giorno della settimana. La categoria non accetta l’etichetta di “privilegiati” che la società gli ha affibbiato, e denuncia le migliaia di attività costrette a chiudere solo negli ultimi mesi.
Salvatore Cara, delegato della Federazione italiana tabaccai, spiega che “non si tratta di un malcontento corporativo, ma di un’emergenza che sta colpendo il mercato dei tabacchi, dai quali otteniamo una percentuale di ricavi insufficiente a sostenere le spese.” Ovvero, di fronte a un prezzo delle sigarette giunto ormai alle stelle, ai tabaccai è riservato solo un 10% del guadagno. E su un decimo della spesa totale del consumatore, sono applicate tutte le detrazioni fiscali. Come meglio chiarisce Cara: “Ciò significa che su quella percentuale lo Stato preleva un ulteriore 55%.”
Ormai, quello dei tabaccai, sta passando alla storia come “lo sciopero delle bionde”. È la prima vera crisi del settore dopo il grande ridimensionamento del mercato nero del contrabbando. Il mercato della vendita di sigarette ha conosciuto una grande flessione, tanto che l’offerta sta andando a superare la domanda. Per questo motivo le associazioni di settore chiedono al nuovo Governo di congelare il rilascio di nuove licenze: “Siamo troppi e la concorrenza sta costringendo molti titolari a vendere l’attività.”