Il sistema idrico italiano fa acqua

Gli acquedotti italiani fanno letteralmente acqua. Il tasso medio di H2O perduta e rubata è del 30% sul totale. Bazzano (Federutility): «Bisogna alzare le tariffe per permettere gli investimenti». Attanasio (Kpmg): «Consolidare i gestori e norme più certe nel settore».

Lembo (Contratto mondiale per l’acqua): «L’acqua non è una merce. Puntare sulla fiscalità dello Stato». Goccia dopo goccia. Anzi, sarebbe meglio dire: “ondata dopo ondata”. E sì, perché quello che sparisce ogni anno dagli acquedotti italiani è un vero e proprio fiume d’ acqua. Circa 2,61 miliardi i metri cubi di H2O che, annualmente, il sistema idrico italiano lascia per strada. Meglio…per i propri tubi. Il tutto a causa di perdite fisiche o per mano dei soliti ignoti che rubano acqua.

Una massa liquida notevole che si desume dai numeri del Co.Vi.Ri, il Comitato per la Vigilanza sull’uso delle Risorse idriche. Secondo il comitato istituito presso il ministero dell’Ambiente, contattato, la quantità di acqua immessa nel sistema idrico nel 2008, riferita a 36,5 milioni di abitanti, è di 5,308 miliardi di m3. Questo dato parametrato sugli attuali 60 milioni di abitanti, così come indicato dallo stesso Co.Vi.Ri, implica una valore di 8,72 miliardi di m3 del prezioso liquido immessi nei tubi. Tenuto conto che la percentuale media di perdite del sistema idrico italiano è del 30% ecco, allora, che si giunge al valore di 2,61 miliardi di m3.

Milioni di euro buttati

Una cifra assolutamente attendibile, come conferma lo stesso Co.Vi.Ri., che ovviamente significa anche un’immediata, e diretta, perdita economica. Le società di gestione degli acquedotti, infatti, tirano fuori dei soldi per fornire l’energia elettrica e i servizi al fine di immettere l’acqua nelle condutture. Un’attività che, secondo Federutility, equivale al 10% dei costi industriali sostenuti per ogni metro cubo d’acqua. Costi, quest’ultimi, che in media si attestano in Italia sui 0,87 euro.
Tirando le somme, i 2,61 miliardi di m3 di acqua perduta significano circa 226 milioni di euro buttati via ogni anno. Soldi sprecati. Il che, in un momento di dura crisi come l’attuale, non è un bel vedere. E non basta.

Miliardi sottratti al sistema Italia

Al di là degli sprechi c’è un altro dato che fa riflettere. La media degli investimenti europea per garantire un sistema efficiente è di 274 euro al metro cubo di H2O. Ebbene, in Italia, questo valore si aggira, secondo Kpmg, sui 107 euro. «Ciò significa – spiega Gianpaolo Attanasio, consulente di Kpmg e esperto di utility- 167 euro di mancati investimenti per utenza». Che a livello di sistema Paese, vuol dire un «mancato ricavo di oltre 3 miliardi all’anno, per lavori sulle reti non realizzati». Anche qui, a fronte della dura recessione che colpisce il mondo intero e l’Italia, l’occasione per porre in essere politiche economiche anti-crisi ci sarebbe. Ma non viene raccolta.

Perdite tra le maggiori

L’Italia, peraltro, vanta il non invidiabile primato di una media percentuale delle perdite ben superiore a quella degli altri paesi occidentali. Nella Penisola, in media, il 30% delle acque immesse nelle condutture va perso o viene rubato. Un valore ben superiore a quello degli altri stati «avanzati», dove la percentuale è compresa tra un minimo di 15 e un massimo del 20 per cento.

Precisazione dell’Acquedotto Pugliese: «Le perdite in rete sono oggi al 35% e non al 55%. Ed anche ove sommassimo alle perdite in rete quelle cosiddette amministrative, le perdite dell’Acquedotto Pugliese sarebbero al 47%».

Le tariffe

La domanda, a questo punto, appare scontata: perché le società di gestione degli acquedotti italiani non investono per ridurre le perdite? «Sul piatto – risponde un po’ seccato Roberto Bazzano, presidente di Federutility – ci sono ben 10 miliardi di euro per interventi sulla rete. E cinque di questi sono cantierabili nei prossimi 5 anni. I tempi, insomma, sono dilatati e non per colpa delle aziende». Cosa intende dire? «Ci sono diverse cause che rallentano l’attività – risponde il manager – I troppi vincoli amministrativi, politici e burocratici. Poi, una regolamentazione arretrata e contradditoria. Ma, soprattutto, pesa un aspetto». Quale? «Il problema è che la normativa attuale permette una remunerazione lorda del 7% del capitale. Un tetto che dev’essere coordinato con il limite dell’aumento massimo del 5% annuo della tariffa. È chiaro che, a fronte della percentuale data di remunerazione del capitale, per incrementare gli investimenti bisognerebbe avere la possibilità aumentare oltre il 5% la tariffa. Altrimenti si va in perdita: è giusto che in un settore come l’acqua non ci siano extra-profitti. Ma almeno il tasso d’incremento tariffario deve essere alzato». Di più: «Voglio ricordare – afferma Bazzano – che attualmente la tariffa media in Italia è di 1,1 euro al metro cubo. Una tra le più basse d’Europa».

Come dire, insomma, che l’aumento non deve fare gridare allo scandalo. Già, lo scandalo. Tuttavia non si capisce perché, se una volta tanto siamo tra i più virtuosi in Europa, dobbiamo aumentare la tariffa? «Perché la situazione è di stallo. Ci allontaniamo dagli obiettivi europei e non riusciamo a fare gli investimenti necessari e recuperare la giusta efficienza. Le società non possono programmare investimenti in perdite». Però, proprio in questo periodo di crisi, è difficile pensare ad un aumento della bolletta dell’acqua. Molta gente non ha i soldi per sopravvivere. Non esistono alternative? «Si potrebbe pensare- dice Bazzano – a sistemi di agevolazioni nelle bollette per le aree più depresse del Paese. O, più in generale, ad agire in termini di fiscalità. Cioè: lo Stato intervenga in favore del settore. Lo ha fatto per le banche, non vedo perché non replicare in un comparto industriale così importante. Peraltro, quest’azione può costituire una strategia in ottica anti-crisi». Insomma, il messaggio di Federutility è chiaro: bisogna seguire criteri di economicità nella gestione, altrimenti non si va da nessuna parte. Passo fondamentale è l’aumento della bolletta più del 5% all’anno, per poter avviare gli investimenti.

Profitti sì, profitti no 

Molti economisti però, soprattutto dopo il terribile crack dei mercati finanziari, contestano che le risorse finanziarie debbano trovarsi sfruttando un approccio economico-privatistico. Viene capovolto l’approccio al tema. «Il punto di partenza è che l’acqua non è una merce – dice Rosario Lembo, segretario comitato italiano per il Contratto mondiale dell’acqua – Si tratta, invece, di un diritto primario, indisponibile che deve restare nell’ambito della gestione pubblica». La tesi è radicale. «Lo Stato – dice l’esperto – deve sempre garantire a ogni cittadino almeno 50 litri di acqua al giorno, cioè la quantità considerata minima dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms, ndr)». Tuttavia i dubbi non sono pochi. I soldi, infatti, non ci sono: come pensare alla fiscalità dello Stato oggi con il debito italiano alle stelle? Una bella tentazione intellettuale, difficile da concretizzare. «Sono consapevole dei vincoli di bilancio e della dura crisi in cui siamo immersi- ribatte Lembo – . In primis, però, i costi per garantire i 50 litri d’acqua potrebbero essere coperti grazie ad un sistema di tariffe che aumentano progressivamente con i consumi, penalizzando gli sprechi» Vale a dire? «Tra i 50 e 120 litri di uso quotidiano, che l’Oms considera una quantità “sostenibile”, la fee deve coprire solo i costi operativi. Sopra questa soglia, invece, la tariffa deve aumentare progressivamente al consumo: gli extra ricavi dovrebbero servire per garantire la quantità minima di 50 litri quotidiani». Difficile pensare siano sufficienti…« Pensiamo, allora, anche a una gestione più efficiente, con minori spese superflue, dello stesso sistema idrico per risparmiare soldi. Di più: dovrebbero essere razionalizzati gli investimenti nelle infrastrutture. Evitare finanziamenti a opere non essenziali quali, per esempio, il Ponte sullo Stretto di Messina. I fondi necessari, se si vuole, si trovano. Non è una tentazione intellettuale, è pragmatismo. Certo, bisogna cambiare radicalmente, rispetto alla prassi dominante, l’approccio al tema-acqua». Non la pensa così Bazzano: «L’impostazione non convince. La storia ha mostrato come la sola gestione dei comuni è fallimentare, non praticabile: sono stati letteralmente buttati via molti denari». Le posizioni, insomma, sono distanti. Due scenari differenti dove, peraltro, si muovono e si confondono vari temi di discussione.

La proprietà della rete idrica 

Uno di questi è la proprietà dei tubi, degli invasi e delle condotte. «Allo stato attuale – spiega Bazzano – è preferibile che le reti idriche rimangano in mano pubblica». Prima, infatti, «ci dev’essere un consolidamento dei gestori di rete e un ampliamento degli Ambiti territoriali ottimali (Ato)», cioè le aree, individuate dalle regioni, all’interno delle quali un soggetto unitario gestisce le acque. «Hanno una dimensione pressoché provinciale – fa da eco Attanasio- che non corrisponde ai bacini idrici naturali: devono, giocoforza, ingrandirsi. Inoltre è necessaria l’istituzione di un’Authority che funzioni sulla falsariga di quella dell’energia». «Solo in quel momento – riprende Bazzano-, con una normativa coerente, un controllore efficiente e una minore quantità di gestori sarà indifferente parlare di proprietà pubblica o privata. Per adesso è troppo presto». Non così tranchant, invece, la posizione sui gestori di rete. «L’aspetto fondamentale – dice il manager – è che all’interno di un Ato ci sia solo un gestore. Al di là di questo, credo che sui servizi la presenza dei privati possa più velocemente proseguire». Di parere opposto Lembo: «Separare i servizi dalla rete non ha senso: l’acqua è, e deve rimanere, un bene inalienabile. Chi gestisce, di fatto, possiede il network. Lo ripeto, l’H2O deve restare nella mano pubblica».

Fonte: Ilsole24ore.com

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