In questo preciso momento, migliaia di scienziati – e anche migliaia di imprenditori – stanno scrutando nel futuro per cercare migliaia di soluzioni diverse ai problemi energetici e climatici del mondo. Nuove generazioni di tecnologia solare, per mietere meglio i fotoni che piovono dalla nostra stella.
Il bersaglio sfuggente della fusione nucleare, sulla carta più sicura e potente della fissione che usiamo oggi. Addirittura giganteschi ombrelli da lanciare in orbita, per abbassare la temperatura qualora gli equilibri del clima rischiassero un giorno di andare fuori controllo.
Eppure, una soluzione grandiosa – facile, vantaggiosa e perfino economica – potrebbe nascere scrutando nel passato.
La leggenda di Eldorado è sopravvissuta per un paio di secoli, fino a morire per mancanza di prove. Nel 1542, il conquistador Francisco De Orellana si avventura nel cuore dell’Amazzonia in cerca di oro e – al ritorno – racconta di aver visto una fiorente civiltà nel cuore della foresta pluviale: villaggi, fattorie, mura fortificate. Si alimenta così il mito di un re dorato che governa una città ricca di riserve auree, che per anni seminerà illusioni e morte fra le fila dell’esercito spagnolo.
In verità, nonostante la foresta amazzonica appaia come un’icona di fertilità, la sua terra giallastra era tutt’altro che adatta, a ospitare una civiltà popolosa e quindi ben nutrita: ancora oggi, gli autoctoni sono soliti bruciare pezzi di foresta, nel disperato tentativo di renderla fertile per un raccolto o due. Dopodiché, sono costretti – facendo male all’Amazzonia e all’atmosfera del mondo intero – a spostarsi e a ricominciare daccapo.
Nonostante ciò, de Orellana potrebbe aver detto il vero. Ci sono punti del Brasile (e della Colombia), dove la terra non è gialla: in portoghese la chiamano terra preta, terra nera. Non casualmente, ma in appezzamenti regolari, alcuni grandi decine di ettari, segno inequivocabile di una fabbricazione umana. E lì, come hanno sperimentato ricercatori della Cornell University, la resa del grano migliora fino all’880%. Questo Eldorado alimentare, secondo gli archeologi, risale a civiltà prosperate in Sudamerica fra i 2.500 ai 6mila anni fa. Le quali, avevano inventato una tecnologia stranota alle civiltà contadine da questa parte dell’Atlantico, applicandola diversamente.
Si chiama pirolisi. È la carbonizzazione di qualsiasi biomassa in assenza di ossigeno. Per togliere l’aria, i carbonai usavano pietre e di terra. Le civiltà precolombiane, chissà. Noi del Ventunesimo secolo, come si conviene, ci stiamo preparando a impiegare tecnologie più efficienti e prodotte su scala industriale. Perché dentro al carbone vegetale che esce dalla pirolisi – oggi chiamato biochar, dall’inglese bio-charcoal, carbone biologico – c’è un miracoloso Eldorado di opportunità.
Primo: la pirolisi produce un gas, combustibile, rinnovabile e inesauribile. La sola potatura degli ulivi pugliesi produce 700mila tonnellate di biomassa, ogni anno. Aggiungiamo gli scarti dell’industria alimentare e, con il pirolizzatore giusto – come quelli da decine di megawatt che arriveranno presto sul mercato – si potrebbe ottenere energia termica, convertibile in elettricità, e prodotta su scala locale. Certo non abbastanza a rendere l’Italia energeticamente indipendente, ma un po’ meno dipendente, sì.
Il secondo vantaggio è che il sottoprodotto della pirolisi, il biochar – come ci dice la lezione che viene dall’antica Amazzonia – non è uno scarto, ma una risorsa. Se distribuito nei campi, fertilizza il terreno; ritiene acqua fino a 4-5 volte il suo peso e richiede meno irrigazioni; nel caso delle risaie, non solo fertilizza, ma trattiene le naturali emissioni di metano, un potente gas-serra.
E qui, al punto numero tre, arriva il bello. Il biochar potrebbe contribuire a cambiare la matematica del cambiamento climatico. Quando scaviamo il carbone fossile e lo bruciamo per ottenere elettricità, addizioniamo carbonio, spostandolo dalle viscere della terra all’atmosfera. Con il biochar accade il contrario: si fanno le sottrazioni. Tutte le piante, “mangiano” i fotoni dal sole e l’anidride carbonica dall’atmosfera. Al 50% sono fatte di carbonio e, con la pirolisi, il 90% di questo carbonio resta nel biochar. Non per un anno o due, ma per secoli. O forse per millenni, a giudicare dalla composizione della terra preta. «Se tutti gli scarti agricoli venissero ridotti in biochar e distribuiti nei campi – osserva Franco Miglietta, ricercatore del Cnr e co-fondatore dell’Associazione Italiana Biochar – il Paese ridurrebbe le sue emissioni di CO2, ben di più di quel che il Protocollo di Kyoto gli chieda».
Il biochar è un Eldorado. E stavolta, non è neppure una leggenda.
Fonte: Ilsole24ore.com